Non voglio tornare alla normalità
Voglio ritornare alla Vita
Non voglio che l’economia si riassesti
che torni ad essere strumento di avidità e disparità
Voglio che sia al Servizio dell’autentico benessere
Non voglio che si torni a lavorare come prima
Voglio che i lavori inutili e dannosi collassino
che il lavoro si trasformi in Opera
che si lavori di meno e si valori di più
Non voglio che si torni a lottare per la sopravvivenza
con l’angoscia che non ce ne sia abbastanza
Voglio il supporto di tutti per tutti
che la ricchezza dei pochi sui moltissimi venga redistribuita
Voglio ricordarmi che la scarsità è un imbroglio che ci hanno iniettato
Non voglio che la finanza mondiale e i colossi petroliferi ne escano indenni tornando a sfruttare e speculare
Voglio che sia un terremoto che scuota l’ingiustizia globale
Non voglio che i centri commerciali tornino ad essere sempre aperti
Voglio che gli spazi della condivisione e dello scambio
siano al servizio dell’umano e non del consumo
Non voglio rimettermi a guidare nel traffico congestionato
Voglio muovermi lento e contento
Col ritmo naturale dell’universo […]
(Giordano Ruini – Non voglio tornare alla normalità – da “Dichiarazioni poetiche”)
Da marzo 2020 molte cose sono cambiate, abbiamo passato momenti difficili, per qualcuno drammatici, abbiamo provato a prenderla con filosofia, attingendo a tutta la forza interiore che avevamo a disposizione, abbiamo impastato, cantato, condiviso in modo virtuale il nostro sconforto, sentendoci più vicini, e tutti noi, almeno una volta, abbiamo pensato di voler tornare alla nostra “normalità” , ma con una sorta di consapevolezza e speranza che questo periodo sarebbe stato un’incubatrice ideale per una versione migliore di noi e di conseguenza della nostra società. Ma così è stato?

L’emergenza è allentata, ma ancora presente, eppure i ritmi sono tornati quelli di prima, frenetici e intensi, spinti dalla nostra (più che comprensibile) fame di libertà e, parallelamente, dal profitto, non solo delle aziende penalizzate, ma anche di quelle che non hanno perso terreno durante questa pandemia. Le nostre buone intenzioni sono sfumate. Il consumo compulsivo ha solo ristretto il suo campo d’azione, per un po’, continuando a farci sentire la sua oscura presenza. È aumentato il costo delle materie prime e c’è stato un notevole incremento delle vendite on line, a partire dal lockdown, un po’ per la paura o l’impossibilità di andare in giro per negozi, e un po’ per compensazione, per avere un soddisfacimento immediato dei bisogni sotto forma di beni di consumo.
Ma ora che le misure di sicurezza sono diventate una sorta di compatita formalità, e siamo tornati a spostarci come tante formichine frettolose, quali considerazioni possiamo fare?
Ambiti lavorativi differenti hanno avuto impatti ed esperienze differenti. Nonché una differente percezione da parte del lavoratore.
Si sa, una crisi sociale (perché in fondo un po’ lo è stata una crisi) può spezzare o può ricostruire da zero qualcosa che evidentemente funzionava male. E da un lato molte aziende sono state spinte a cercare nuove soluzioni, sia tecnologiche che organizzative, incoraggiando una maggiore flessibilità (e sostenibilità). Cosa che sicuramente ha dei risvolti positivi per chi lavora in un ufficio, introducendo l’uso dello smart working, o seguendo il trend nord-europeo della settimana lavorativa corta (in fase ancora embrionale nello stivale). Ma cosa significa flessibilità per chi invece lavora nel commercio? O nella ristorazione? Significa che non c’è nessuna riduzione delle ore, che la settimana lavorativa resta di 6 giorni su 7, e che gli orari lavorativi vengono resi flessibili solo in favore dell’azienda, perché vengono spalmati nell’arco della giornata tenendo conto solo dell’affluenza dei clienti. Vi suona nuovo? No, non lo è. È storia vecchia. Di nuovo c’è solo la possibilità di usare la pandemia per giustificare dinamiche errate e situazioni lavorative sempre più faticose, in cui è richiesta una maggiore produttività con un’importante riduzione di personale.
“Ma caspita, sei fortunato, non hai mai smesso di lavorare, nemmeno durante il lockdown, dovresti essere grato e non lamentarti… però se timbrassi e ti fermassi ancora mezz’oretta, perché sai c’è il turno scoperto….”.
“eh, sei stato fermo per tanto tempo, sarai mica stanco? Per qualche settimana il riposo lo puoi anche saltare, su, non fare tante storie”
Chi si è sentito uno di questi due discorsi forse alla normalità non ci voleva tornare, forse si aspettava che dopo un periodo così buio qualcosa di buono germogliasse. Evidentemente c’è la necessità di revisionare le priorità sociali di tutti. Diffondere il benessere individuale e collettivo potrebbe rivelarsi una tecnica vincente in tutti i settori, se la si guardasse come investimento per il futuro, e non come una perdita immediata.
Condivido in pieno..periodo che ci deve essere di insegnamento e di spunto per risvolti positivi!Grande Leti!
Articolato, essenziale, senza retorica.
Ben scritto!